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Addavairê?! (DVE 2.0): “La fatichê sê chiamê checozzê, a me non m’ngozze, a me non m’ngozze”

Sarah Avveniente
Sarah Avveniente
Mentre siamo immersi nella nostra routine frenetica, uno stile di vita lento potrebbe farci gola. Beh, proprio in questi giorni di inerzia e di pigrizia, possiamo dire che “la fatichê sə chiamê checozzê, a me non m’ngozz, a me non m’ngozz”. Ma di fatto, cosa c’entra “la fatica” con “la zucchina”?
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Se è vero che la noia può essere estenuante e che – come canta Angelina Mango –  “non c’è croce più grande di vivere dentro a giorni usati”,  è altrettanto innegabile che i ritmi lenti e ripetitivi serbino un certo fascino, soprattutto da “chiss venn”.

Non a caso il sociologo Franco Cassano, nel suo saggio intitolato “Il pensiero meridiano” (1996), scrive che bisognerebbe essere lenti come un vecchio treno di campagna o come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo. Che bisognerebbe amare le soste per guardare il cammino fatto, imparare a star da sé, aspettare in silenzio ed ogni tanto essere felici di avere in tasca soltanto le mani. Ad andare lenti, in sostanza, c’è più gusto: è una filosofia di vita che consiste nell’ abitare il tempo con poche cose di grande valore, lasciando affiorare i propri pensieri a seconda della strada, come se ci fosse una sorta di accordo tra mente e mondo. 

E chi più dei cosiddetti “umarells” (singolare “umarell”) non vive “la vita lenta” descritta da Cassano? 

Questi ultimi sono i pensionati che si aggirano per la città – li immaginiamo, per lo più, con le mani dietro alla schiena – spesso intenti ad osservare, o meglio vigilare, i cantieri di lavoro che costituiscono una novità utile ad interrompere la circolarità e ripetitività del loro tempo.  A quanto pare, questo termine è un neologismo coniato dallo scrittore bolognese Danilo Masotti nel 2005, aggiungendo una “elle” ad una parola alquanto dispregiativa del dialetto bolognese: “umarèl” indicante un ometto dall’aria dimessa e anonima che vaga per la città. 

Una parola dialettale, dunque, “un bolognesismo”,  che ha oltrepassato i confini regionali per arrivare ad ottenere una fama nazionale ed un immancabile look internazionale conferito dalla decisione del suo inventore di aggiungere una “esse” finale per indicare il plurale. 

E probabilmente, mentre siamo persi ed immersi nella nostra routine frenetica, questo stile di vita potrebbe farci gola (più o meno spesso, a seconda dei casi). Beh, proprio in queste giornate di inerzia e di pigrizia possiamo dire che “la fatichê sə chiamê checozzê, a me non m’ngozz, a me non m’ngozz” (ovvero “la fatica si chiama zucchina, a me non va, a me non va”)

Ma di fatto, cosa c’entra “la fatica” con “la zucchina”? 

Per capirlo dobbiamo fare qualche passo indietro. Le zucche e le zucchine arrivarono in Europa con la scoperta dell’America, grazie a Cristoforo Colombo che ne portò in Italia diverse varietà (allungate, rotonde, grandi, piccole ecc.). Tuttavia, non godettero di un gran prestigio e furono usate esclusivamente per sfamare la plebe. I contadini, dunque, mangiavano zucchine in tutte le salse perché mancavano i mezzi per permettersi tavole imbandite ed una varietà di cibi più prelibati. Facile intuire quanto facilmente questo umile ortaggio, composto prevalentemente d’acqua e poco sostanzioso, potesse venire a noia. Proprio come il lavoro. Così, dunque, nacque l’eloquente metafora che associava “la fatichê” alla “checozzê” (ormai rimasta nell’uso, sebbene le zucchine non siano più considerate il cibo povero per eccellenza).

Il nome dialettale potrebbe derivare – tanto per cambiare – dal latino antico “cucurbita” e dal latino medievale “cocutia” che significa “testa” la quale, come la zucca (variante della zucchina), è rotonda. Man mano il termine si è trasformato in “cocuzza” – o, appunto, “checozzê” – ed infine in “cozucca”, più simile ai termini “zucca” e “zucchina”. 

Se è vero che una “giornata no” può capitare a tutti e che è importante ritagliarsi momenti di lentezza, è anche vero che c’è chi di lavorare o darsi da fare in qualunque ambito, non vuole proprio saperne, neanche nelle migliori condizioni. Infatti il modo di dire dialettale continua aggiungendo una parte probabilmente meno nota ed utilizzata: “sê chiamassê purê cerasê, a me non me trasê, a me non me trasê” (ovvero “se anche si chiamasse ciliegia, a me non va, a me non va”)

Finché, dunque, il lavoro è paragonato alla zucchina sembra quasi che possa annoiare a giusta ragione, ma se si paragona  la “fatichê” alla “cerasê”, allora non c’è scusa che regga. 

Curioso il fatto che le ciliegie, secondo gli antichi greci, derivavano dall’attuale Turchia, in particolare dalla città di Giresun, in greco “Kerasunta”. Plinio il Vecchio racconta che il generale Lucullo, nel 70 a.C., prelevò da lì alcuni alberi di ciliegio per portarli nella penisola italiana. I frutti di quella pianta furono, per questo, chiamati “kerasoi” in greco e “cerasum” in latino, termine pressoché uguale al nostro “cerasê”. A quanto pare, poi, la radice “ker” indicherebbe la durezza del nocciolo o del legno del ciliegio. 

Ancora una volta, dunque, abbiamo la dimostrazione che il nostro dialetto conservi –  più che l’italiano – l’impronta marcata del tempo ed uno stretto contatto con le  lingue antiche (latino e greco) ma che, allo stesso tempo, sia legato da un filo rosso alle altre lingue moderne (europee e non). La “cerasê”, infatti, corrisponde al portoghese “cereja”, allo spagnolo “cereza”, al francese “cerise” e all’arabo “el-keras”. 

Certo è che, ora come allora, le ciliegie sono considerate un frutto prelibato che si può mangiare raramente, solo in un breve periodo dell’anno. Per questa ragione è difficile che ci si stanchi delle stesse e, per estensione, del lavoro ad esse paragonato. A meno che non si sia terribilmente sfaticati! 

mercoledì 14 Febbraio 2024

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franco
franco
2 mesi fa

una spiegazione fanta scientifica comunque complimenti alla gornalista p’la fetich ca’ cè muost…