Certe espressioni o parole dialettali hanno lo strano potere di trasportarci dentro scorci di vita vera, di dipingere realtà passate, ormai sfocate, che nonostante tutto rimangono vive, incastrate tra una lettera e l’altra.
È il caso dell’aggettivo milanese tranatt dove l’assonanza è palese ed è evidente che si nasconda la nostra Trani. Ma procediamo con ordine.
Essere un tranatt significava frequentare assiduamente le osterie dove si era soliti alzare spesso il gomito e bere molto vino. Queste osterie a Milano si chiamavano proprio “trani”.
Ed è qui che il vocabolario Treccani ci viene in aiuto, riportando una definizione interessate:
trani
s. m. – A Milano o nel Milanese, fino a tempi recenti, bettola, osteria, dal nome del centro pugliese di Trani (in prov. di Bari), che appariva nelle insegne di osterie, da solo o nella locuz. vino di Trani, che indicava anche, genericam., il vino rosso sfuso.
E perché proprio Trani?
Beh il motivo viene da lontano ed ha a che fare con la storia politica ed economica dell’Italia. In particolare con Francesco Crispi, il primo politico meridionale a diventare presidente del consiglio nell’epoca in cui in Italia c’era la monarchia. Rimase al potere per quasi dieci anni (1887-1896) e, con il consenso di Umberto I, assunse anche le cariche di ministro degli Interni e degli Esteri. Proprio in politica estera preferì consolidare l’alleanza con la Germania, mostrandosi ostile verso la Francia. Quest’ultima, indispettita, introdusse una tariffa doganale discriminatoria nei confronti dei prodotti italiani. Crispi – in tutta risposta – reagì aumentando del 50% i dazi sui prodotti francesi. Iniziava, così, la guerra doganale tra Italia e Francia.
A pagarne le conseguenze fu l’economia del Sud Italia: non a caso i francesi erano i principali acquirenti dei prodotti agricoli del Mezzogiorno. Così, già alla fine dell’Ottocento, iniziò il fenomeno migratorio dal sud al nord.
I pugliesi che arrivavano a Milano aprivano locali “alla buona” dove poter vendere il vino delle loro campagne, lo stesso che non poteva più essere protagonista del commercio d’oltralpe. Nel 1931 furono circa 40mila i cittadini pugliesi – il 5% del totale – che decisero di trasferirsi a Milano e, nel secondo dopoguerra, le loro vinerie alla mescita si allargarono a macchia d’olio.
È probabile, allora, che l’arrivo di partita di vino tranese abbia destato così tanto scalpore, da diventare rappresentativa e comparire nelle insegne di tali osterie per indicare la provenienza dei vini sfusi che giungevano anche da altre cittadine del Sud. Ma è anche vero che, tra gli osti pugliesi, la maggior parte proveniva da Trani. Da lì passare al più veloce «vado al trani» fu quantomai naturale.
I frequentatori abituali – o meglio i tranatt – spesso erano operai e contadini che bevevano il vino pugliese – forte per antonomasia – a buon prezzo. Per loro pare che costituisse un energetico fondamentale tanto da essere chiamato “carne potabile”. Per altri, questo vino era tanto forte da dove essere tagliato con i vini più leggeri del luogo.
Chi descrive al meglio l’atmosfera di questi luoghi “abbastanza per male” è Giorgio Gaber il quale, negli anni ‘60, scrive, in collaborazione con l’umorista Simonetta, la celebre canzone “Trani a gogò”.
Immaginiamo allora lo stupore dei tranesi nel sentirsi in qualche modo protagonisti di una canzone del rampante Signor G (come lo chiamavano i suoi estimatori). Così come è probabile che pochi sapessero il significato della locuzione avverbiale “a gogò”: un raddoppiamento scherzoso della sillaba iniziale del francese gogue (divertimento o piacere) traducibile, forse, con l’espressione “a profusione”.
Ascoltandola, si può quasi far amicizia con una serie di personaggi che frequentavano “i trani”:
un vecchio barista dall’aria un po’ triste, la vecchia zitella che cerca l’amor, un pregiudicato uscito da poco che spiega a un amico l’errore che fece, il finto pittore col finto scrittore che parlan di sé tra sé e sé.
Tutti passavano la sera “scolando barbera”, cantando, giocando a carte o a bocce e ballando (forse due tanghi o l’antica mazurka). Ne deduciamo, allora, che essere tranatt significasse partecipare ed abbandonarsi al clima spensierato e – forse – un po’ dissoluto di questi locali, antenati prossimi dei moderni wine bar.
Ed uno di loro, a quanto pare, era Lino Banfi che racconta:
Andavo nei trani e iniziavo a canticchiare delle canzoni facendo finta di essere nero, con una calza in testa in cambio di un pasto e un bicchiere di vino. Capii da subito che il nostro linguaggio dialettale faceva ridere
Per concludere, nella copertina interna del 45 giri di “Trani a gogò” Vincenzo Micocci scrive:
La Milano di cui si occupa Gaber è una Milano minore, che i fastosi grattacieli della Milano del miracolo economico, fanno rimanere un po’ in ombra. Ma essa non solo esiste, è «viva»
Oggi, dopo sessant’anni, se si chiede ad un milanese “di andar per i trani” è più probabile che pensi alla nostra città e alla cattedrale sul mare. Piano piano, infatti, tali osterie sono scomparse tra la nebbia dei Navigli o si sono trasformate tanto da diventare irriconoscibili. Eppure, come ogni realtà pulsante che si rispetti – seppur tramontata – ha lasciato un filo nella trama del presente. E basta tirarlo un po’ per imbattersi in un termine dialettale, in una canzone o nel candido ricordo di qualcuno e scoprire che, in fondo, la storia non tramonta mai.
Un giorno possibile aprirò una piccola bettola, osteria e cantina come mia nonna materna a Trani e dove mia madre bimba ha vissuto quelle vive atmosfere che con i suoi ricordi raccontati mi ha fatto rivivere. Grazie Gaber 🎈💓🍷✨